Cobalto radioattivo in pentole e posate Controlli «Saltuari»

02-05-2013

www.avvenire.it    05/02/2013

 

Il contrabbando di materiale radioattivo delle volte comincia nel retrobottega di una clinica, e finisce in tavola. Nell’acciaio delle pentole come nei metalli delle posate. Altre volte con il traffico di sorgenti nucleari si alimenta il sogno sinistro di despoti e terroristi che anelano alla "bomba sporca".

È un labirinto di verità nascoste, quello del mercato mondiale di materiali radioattivi. Solo nel 2012 sono stati scoperti 160 tentativi di cessione di veleni nucleari. Con il Mediterraneo e l’Italia più di una volta al centro delle rotte internazionali. L’ultimo riscontro è datato febbraio 2013. A metà mese un carico di prodotti "Made in India" viene scaricato da un bastimento attraccato a Taranto. Migliaia di mestoli, posate, pentole in acciaio sono risultati contaminati al "Cobalto 60", assai utilizzato nella medicina oncologica, come sorgente di radiazioni per la radioterapia medica o come fonte di radioattività per la radiografia industriale. L’allarme è stato dato quando la merce era già finita nel magazzino del grossista, tanto da far scattare controlli in tutta Italia. Carico sequestrato, e tanti dubbi sulla reale provenienza. Probabilmente si trattava di scorie che avrebbero dovuto essere smaltite ma che, con un enorme risparmio sui costi, invece sono state occultate immettendole nel ciclo dell’acciaio.

L’Italia, del resto, è la piattaforma logistica perfetta per far passare attraverso le frontiere ogni genere di veleni. «Il vostro è un Paese dai confini molto porosi. Non è difficile far arrivare o far partire illegalmente materiali che possono essere adoperati anche a scopi militari». L’investigatore inglese che accetta di incontrarci nella periferia londinese, si sta occupando di alcuni dei più spinosi casi di contrabbando di metalli radioattivi. Mentre descrive alcuni episodi recenti, come l’arresto ad Istanbul, pochi giorni fa, di due europei e due turchi che stavano trattando la vendita di uranio all’Iran, mostra sul suo tablet un documento italiano.

È un passaggio dell’ultima relazione della Commissione parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Pochi capoversi sfuggiti ai più, ma che gli analisti dei servizi segreti, da quelli italiani a quelli britannici, prendono molto sul serio. «La Commissione ha dovuto prendere atto – è la denuncia contenuta nel rapporto conclusivo dell’organismo fino a un mese fa presieduto da Gaetano Pecorella – che un sistema di rilevazione automatica della radioattività presso i valichi di frontiera», peraltro costato 5 miliardi di lire nel 1996, «è stato acquistato ed installato da parte dell’allora ministero dell’Industria, ma, per motivi difficilmente comprensibili, non è mai stato preso in carico». Quel che è peggio: «Non è noto, anche se è facilmente immaginabile, lo stato di conservazione del sistema». Insomma, «da voi solo la prevenzione investigativa e la buona sorte – osserva l’agente – possono consentire di scoprire il passaggio di sostanze radioattive attraverso i confini terrestri e le dogane portuali».

L’agenzia internazionale per l’energia atomica, l’Aiea, li definisce genericamente «incidenti». Dal 1993, quando è stato istituito il registro, ne sono stati segnalati 2.331. Dei 160 avvenuti lo scorso anno, la gran parte ha coinvolto Paesi europei, ma non è dato sapere quali in particolare siano stati coinvolti. Tra i casi su cui si sta investigando, 17 riguardano attività criminali legate alla compravendita di sorgenti radioattive, 24 sono gli episodi di furto o «perdita inspiegabile» del materiale, mentre per i restanti 119 «incidenti» si parla genericamente di «attività non autorizzate».

A pieno titolo viene annoverato tra questi lo smaltimento illegale. Non sempre si tratta di materia per 007. In Italia ogni anno «vengono prodotti 500 metri cubi di rifiuti radioattivi medicali, provenienti cioè da radiografie, scintigrafie, farmaci che oggi vengono messi in parziale sicurezza», ha spiegato nei giorni scorsi Giuseppe Nucci, amministratore delegato di Sogin (la società di Stato responsabile della bonifica ambientale dei siti nucleari). In mancanza di un sistema nazionale di tracciabilità, succede che questi veleni «finiscono qualche volta negli inceneritori e anche in fiumi e torrenti, una quantità – è l’allarme di Sogin – destinata a crescere e che va messa in sicurezza perché questa situazione non può durare in eterno».

Le mafie non hanno fretta. Grazie a questo business si sono guadagnate un posto in prima fila nella "borsa internazionale" della compravendita e dello smaltimento di metalli radioattivi. Rivenduti ad acquirenti senza scrupoli o interrati lungo le coste africane.

 

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