I contratti di convivenza è una delle novità della legge sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto, la legge 20 maggio 2016 n.76 entrerà in vigore il prossimo 5 giugno.
I contratti di convivenza sono stati pensati per permettere ai conviventi di fatto registrati (e cioè a quelli che abbiano registrato il loro stato di stabile convivenza etero o omosessuale nei registri anagrafici) di «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune» (articolo 1, comma 50). Significa che i conviventi di fatto possono affidare a un contratto, appositamente stipulato, la regolamentazione degli aspetti economici del loro menage; si tratta, beninteso, di una opportunità e non di un dovere, in quanto i conviventi hanno la facoltà di svolgere il loro rapporto anche in assenza di un contratto di convivenza.
Questi contratti si prestano ad ospitare un amplissimo contenuto, perché l’unico limite è che in essi devono essere trattate questioni inerenti l’ambito dei «rapporti patrimoniali» dei conviventi. Quindi, non sono idonei a regolamentare questioni diverse da quelle di rilevanza economica, tipo le tematiche di natura strettamente personale, come la vita sessuale e l’organizzazione familiare.
Nei contratti di convivenza possono dunque essere trattate materie come ad esempio (articolo 1, comma 53):
Il luogo nel quale i conviventi convengono di risiedere;
L’adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni.
Nel corso della convivenza (sia che si tratti di convivenza registrata che di convivenza non registrata) il regime degli acquisti è regolata dal principio in base al quale l’acquisto profitta solo al soggetto che lo effettua: per far sì che dell’acquisto compiuto nel corso del rapporto di convivenza da uno dei conviventi benefici anche l’altro componente della coppia, occorre non solo che si tratti di una convivenza registrata in anagrafe, ma pure che si tratti di conviventi che, qualora sia stipulato un contratto di convivenza, abbiano anche scelto di inserirvi la clausola dell’adozione del regime di comunione, e cioè di determinare l’effetto per il quale qualsiasi acquisto da chiunque compiuto durante la convivenza appartenga appunto alla comunione dei conviventi.
La legge prescrive (articolo 1, comma 51) che il contratto (nonché gli accordi con i quali lo si modifichi o lo si risolva) devono essere redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato, i quali ne devono attestare la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico (ciò che riguarda soprattutto gli avvocati, poiché è ovvio che se un notaio accetta di stipulare un dato contratto, questo è evidentemente ritenuto lecito dal pubblico ufficiale rogante).
Una volta stipulato il contratto di convivenza, ai fini di renderlo opponibile ai terzi (e cioè al fine di pretendere appunto che i terzi debbano considerare comuni tra i conviventi gli acquisti da costoro compiuti durante la convivenza, ove abbiano optato per il regime di comunione) il notaio o l’avvocato che hanno autenticato l’atto devono provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi, al fine della iscrizione del contratto stesso nei registri dell’anagrafe nei quali è registrata la convivenza.
In sostanza, questo sistema pubblicitario è preordinato a permettere a chiunque di verificare se tra due determinati soggetti esista una situazione di convivenza registrata e come questa convivenza sia stata eventualmente regolamentata sotto il profilo patrimoniale; in questo campo non si pongono questioni di privacy, in quanto vi è l’esigenza esattamente contraria, e cioè di consentire che chi ne sia interessato possa compiere tutti gli accertamenti che gli occorrono o dei quali sia semplicemente curioso.
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