www.avvenire.it 12/11/2012
«La nostra impresa familiare ci ha sempre consentito di vivere agiatamente. Ma a un certo punto mi sono ritrovata in una tale ristrettezza economica da non poter fare neanche la spesa. Mio marito non mi parlava, mi sfuggiva. A un certo punto l’ho costretto a rivelarmi la causa delle nostre difficoltà. Mi ha confessato che stava dilapidando tutto nel gioco d’azzardo. Attività commerciale, casa, conto bancario, ha sacrificato persino le catenine d’oro dei nostri figli. L’ho sbattuto fuori di casa e gli ho tolto le chiavi. Ora voglio la separazione».
La testimonianza di Claudia, 39 anni, colpisce profondamente persino un avvocato dalla consumata esperienza come Attilio Simeone che, nelle vesti di coordinatore nazionale del Cartello "Insieme contro l’azzardo" – che aderisce alla Consulta nazionale antiusura –, ne ha viste e sentite di «tutti i colori». «Claudia – dice – è entrata nel mio studio dopo aver trascorso 6 anni di inferno in cui ha assistito a una vera e propria trasformazione da parte dell’uomo che ha sposato e che le ha sempre nascosto la sua malattia. Quell’uomo fa parte di un esercito di quasi un milione di italiani affetto da gioco d’azzardo patologico e che sembra interessare molto poco al nostro governo».
Ma sulla scrivania dello studio di Simeone, a Bari, non ci sono solo le testimonianze come quella di Claudia. C’è un dossier che fa tremare i polsi. Perché indica che il 10% delle separazioni nel nostro Paese è causato proprio dal gioco d’azzardo di cui soffre uno dei due coniugi e di cui si è discusso ieri nel convegno su gioco d’azzardo e usura, organizzato dall’associazione Anteas di Toritto (Bari), con la partecipazione della Fondazione antiusura San Nicola e Santi Medici, di "Insieme contro l’azzardo" e del Comune barese.
«Di questo 10% – spiega Simeone –, l’80% è costituito da ricorsi di separazione introdotti soprattutto da donne che, sfinite dai reiterati comportamenti compulsivi dei mariti, decidono di buttare la spugna rivolgendosi al tribunale anche per porre un argine alla devastazione sociale ed economica che un giocatore patologico ha la capacità di determinare in ambito familiare e lavorativo». Ma quell’80% non è da assumere in termini assoluti perché sempre più donne giocano ("gratta e vinci" e slot machine su tutto); un dato che, evidenzia Simeone, darà presto i suoi effetti in termini di separazione coniugale. Ma il legale sottolinea anche che, «trattandosi di una patologia strettamente connessa, se non proprio indotta, da difficoltà economiche dovute, nella migliore delle ipotesi, alla perdita del posto di lavoro magari già precario, la percentuale dell’80% è più che "giustificata" dal fatto che in molte parti d’Italia, in special modo al Sud, è ancora l’uomo l’unico percettore di reddito che, trovandosi in difficoltà lavorative, è tendenzialmente portato a tentare la dea bendata più della donna».
Un aspetto su tutti, nella triste sequenza di litigi e di declini familiari, è, a giudizio di Simeone, «socialmente rilevante»: quasi tutte le coppie arrivano alla separazione senza aver fatto prima un serio tentativo di risoluzione del problema. «Nessuno si è mai recato da un esperto o da un sacerdote – ammette l’avvocato barese – per capire innanzitutto che il gioco d’azzardo patologico è una malattia, una dipendenza dalla quale da soli non si arriva lontano. E della quale è complice lo Stato che, incentivando il ricorso all’azzardo quasi fosse una risoluzione a tutti i problemi esistenziali ed economici, non fa altro che impedirne una vera consapevolezza sociale».
Insomma, è questo il cambiamento di rotta che il Cartello "Insieme contro l’azzardo" chiede sia posto in essere: il giocatore incallito è un malato. Dunque, i giudici «dovranno cominciare a considerare l’aspetto patologico del gioco, che offusca provvisoriamente la capacità dei soggetti affetti. Se si vuole fare un "servizio" alla giustizia, in molti casi più che di separazione, l’istituto civilistico più adatto è quello dell’"amministrazione di sostegno" che offre ai giocatori un valido supporto nella capacità decisionale», e che può investire il coniuge del giocatore. Perché, come rileva Simeone, quasi mai viene messo in dubbio l’affetto verso il coniuge. E «quando è la famiglia a farsi carico del problema patologico – dichiara – muta radicalmente la visione delle cose, tutto appare rapportato alla risoluzione della patologia e a riscrivere le regole dello stare insieme». Repentinamente «cambiano le priorità di ogni membro del nucleo», si diventa più attenti «ai bisogni essenziali e meno consumisti. Registriamo un maggior equilibrio familiare, una maggiore capacità di rapportarsi agli altri, aumenta sia l’autostima sia la complicità di coppia».